Arthur Schopenhauer, nella sua serie di saggi Parerga und Paralipomena, include un racconto sul dilemma affrontato dai porcospini durante l’inverno. Quando arriva il freddo, gli animali cercano di stringersi fra di loro per riscaldarsi. Tuttavia, mano a mano che si avvicinano, iniziano a pungersi a vicenda con le loro spine. Così si allontanano per evitare di ferirsi. Il freddo, però, li spinge nuovamente ad avvicinarsi, e così di seguito. Finalmente dopo un grande quantità di tentativi di avvicinamento e di allontanamento, i porcospini scoprono che la cosa migliore è rimanere vicini gli uni agli altri, ma non attaccati.
Possiamo osservare il dilemma dei porcospini anche nei contesti di gruppo. Quando la vicinanza è eccessiva? Quanto possiamo aprirci agli altri? Cosa si può rivelare di se stessi? Quale è il grado di intimità sufficiente? E quando è necessario fissare dei limiti?
A mio avviso, questo libro è una lettura molto interessante per manager che guidano team e consulenti/coach che supportano dall’esterno la crescita delle organizzazioni. Per la potenza della metafora centrale dei porcospini su cui è costruito, ma anche per lo stile leggero di De Vries che inizia ogni argomento con una storia o un racconto, ed infine per la compresenza di aspetti teorici e di strumenti pratici per la conduzione di percorsi di sviluppo dei team.
Il paradosso del lavoro di gruppo per De Vries è che lavorare in team è indispensabile per raggiungere risultati sfidanti, ma creare gruppi ad alto funzionamento non è per nulla facile e scontato, perché il comportamento umano è mosso da forze non razionali che emergono forti nelle dinamiche di team e molto spesso i leader non hanno proprio le conoscenze/competenze per gestire queste dinamiche. Ci sono forze centripete che spingono l’individuo a lavorare in team (avvicinandosi agli altri porcospini) ma anche forze centrifughe che bloccano il funzionamento dei team (allontanandosi dagli altri porcospini).
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La ricetta di De Vries è l’approccio coaching, un mix di coaching sul gruppo e coaching individuale a partire da tre elementi base:
-la consapevolezza che l’aiuto esterno di un coach è chiave per sbloccare alcuni temi e dare un metodo
-la disponibilità a mettersi in gioco personalmente per allenarsi
-la volontà di dare spazio e tempo per mettere a fuoco il processo/il metodo con cui si lavora in gruppo
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De Vries prende in esame diverse teorie e modelli sul comportamento dei gruppi:
– la teoria lineare di Bruce Tuckman, che prevede diverse fasi successive di sviluppo di un team (forminig, storming, norming, performing),
– la teoria monomitica del viaggio dell’eroe di Joseph Campbell
– la teoria elicoidale di Kurt Lewin che vede il team soggetto ad un campo di forze contrapposte, alcune che supportano il cambiamento ed altre che lo ostacolano.
Il concetto chiave è che nel team ci sono sempre due livelli: le individualità dei singoli con le loro caratteristiche, talenti e ruoli differenti e il team come entità unitaria che è maggiore della somma delle singole parti. Il coach si deve rivolgere ad entrambi i livelli.
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Come per il coaching individuale, i percorsi di sviluppo dei team affrontano un percorso di cambiamento che avviene nel tempo. De Vries fa un parallelismo fra le fasi del cambiamento individuale (preoccupazione, confronto, chiarimento, cristallizzazione e cambiamento effettivo) con le fasi del cambiamento di un sistema (creazione della motivazione al cambiamento, creazione assetto mentale condiviso, costruzione competenze, diventare organizzazione performante). Il coach che interviene sui gruppi deve poter gestire entrambi le dinamiche.
Per chi come me si occupa di accompagnare Leadership Team in percorsi di sviluppo è molto interessante il capitolo 9 “Lo zen del coaching di gruppo” che descrive alcuni strumenti pratici utilizzabili per lo sviluppo di un team:
-esercizio delle 4 colonne di Kegan – Lahey per far emergere conflitti interni,
-l’intervento paradossale che prescrive al team il su sintomo disfunzionale,
-le metafore animali o gli autoritratti personali,
-gli strumenti di feedback 720,
-le tecniche di narrativa personale come la career line
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De Vries poi identifica alcune competenze chiave che il coach che lavora sui gruppi deve sviluppare, prima fra tutte quella di saper leggere il gruppo con entità unica:
-ti capita in un team di sperimentare fantasie o idee che ti aiutano a dare un senso a quello che sta accadendo e sei efficace nel decifrarle ed esprimerle?
-riconosci rapidamente che alcune persone nel team stanno agendo un ruolo specifico?
-sai come gestire il silenzio in un lavoro di gruppo?
-sei abile nel valutare l’umore di un team e a prenderne le distanze?
Altra competenza chiave di un agente di cambiamento/coach deve esercitare è quella che De Vries definisce “capacità negativa” (deriva da un’espressione usata dal poeta John Keats, per indicare la capacità di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza alcuna irritazione per raggiungere i fatti e la ragione:
-riesci a gestire situazioni fumose senza diventare troppo ansioso?
-sei disposto a rimanere in uno stato di incertezza?
-sei naturalmente aperto alle impressioni e alle idee?
-sei capace di giocare con la fantasia?
Altra posta per me in questo libro così importante:
Chiedere aiuto per affrontare una trasformazione è molto difficile per i dirigenti di successo e anche se “cambiamento” è un mantra frequente per loro, portare una variazione della coscienza collettiva di un’organizzazione è particolarmente difficile.
I coach di gruppo possono supportare questa trasformazione, contribuendo a creare punti di non ritorno, provocando degli squilibri che permettono di trovare un nuovo equilibrio.
Si parla di “tagliare il nodo gordiano” per descrivere la soluzione di un problema complicato tramite un’azione coraggiosa. Questo è il compito che devono assolvere i coach di gruppo in quanto agenti di cambiamento.
-Nel tuo gruppo l’obiettivo dichiarato non è quello reale, oppure gli obiettivi sono confusi e le priorità cambiano in continuazione?
-Pensi che ci sia un falso consenso tra i membri del tuo team?
-Ci sono nel tuo team dei conflitti aperti irrisolti?
-Il tuo team trova difficile raggiungere una conclusione e prendere decisioni?
-Le persone arrivano in ritardo o non arrivano proprio?
-C’è una partecipazione impari da parte di alcuni membri?
-I membri del tuo team non si sentono responsabili l’uno dell’altro?
Se la maggior parte del delle tue risposte è SI, il tuo team è un team disfunzionale.
Creare un team vincente implica scegliere dei membri che abbiano personalità diverse (in quanto a percezioni, bisogni, attitudini, motivazioni, ambiente di formazione, competenze e aspettative) e trasformarli in un’unità di lavoro che sia completa, efficiente e olistica. Questa può diventare una sfida, in quanto certi tipi di personalità non vanno proprio d’accordo. Per varie ragioni, in alcuni casi è come sventolare un panno rosso davanti a un toro.
Ci sono situazioni in cui il coaching è un’impresa ardua. Questo succede in quelle organizzazioni caratterizzate da diffidenza, paura e da una cultura basata sulla colpa, in aziende che hanno strutture con ricompensa a brevissimo termine e in organizzazioni dove le persone sono viste come beni di cui usufruire. In tutti questi casi – organizzazioni con un’alta componente nevrotica – ritengo che gli sforzi del coaching produrranno pochi risultati.
La fiducia è una dimensione importante della vita organizzativa e rappresenta il collante delle conversazioni coraggiose. Ma la fiducia non emerge dal nulla. Far sì che si instauri un rapporto di fiducia richiede un sostanziale investimento di energie prima che i membri di un team siano disposti davvero a fidarsi l’uno dell’altro.
La speranza è una forza molto potente, i coach di gruppo possono incoraggiare le aspettative positive facendo notare che altri colleghi sono stati in grado di superare lo stesso tipo di problemi.
A sei uomini ciechi venne chiesto di determinare quale fosse l’aspetto di un elefante toccando le diverse parti del suo corpo. L’uomo che toccò una gamba disse che l’elefante sembrava un pilastro, l’uomo che toccò la coda disse che l’elefante era come una corda; quello che toccò il busto disse che l’elefante era come il ramo di un albero; quello che toccò l’orecchio pensò che l’elefante fosse come un ventilatore; per colui che strofinò la pancia, l’elefante era come un muro e l’uomo che toccò la zanna sosteneva che l’elefante era come un tubo solido.
Il racconto evidenzia che la gente comprende solo una piccola parte della realtà e su di essa fa delle deduzioni con la pretesa che la propria versione sia quella corretta. (..) Come i sei uomini della parabola possiamo invece comprendere la globalità dell’elefante, del tutto misteriosa, mettendo in comune le conoscenze individuali di ogni sua parte e lavorando per una migliore comprensione della totalità.
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[…] giusta distanza prosegue idealmente i temi lanciati dal libro di De Vries Effetto Porcospino. In un mondo sempre più complesso e turbolento, in cui il contenuto del lavoro è […]