Alessandro D’Avenia è da qualche anno mio compagno di viaggio del periodo di Natale (quest’anno viaggio solo con l’immaginazione…).
Come raccontato nel libro “Che cosa vediamo quando leggiamo”, “I romanzi sostengono implicitamente una visione filosofica del mondo. Presuppongono, o propongono, un’ontologia, un’epistemologia, una metafisica.” La visione del mondo di D’Avenia è la mia, il suo sguardo sulle cose e le persone è quello che anche io vorrei avere nella mia vita di tutti i giorni…
Vedere, visione, sguardo….da queste prime righe, chi conosce i rudimenti della PNL (Programmazione Neuro-Linguistica) avrà colto che sono una persona visiva (anche il mio amore per i colori lo dice).
Forse per questo, mi ha colpito così tanto L’appello che ha come protagonista un cieco, professore di liceo, che fa l’appello chiamando i suoi alunni per nome, facendo una domanda e invitando ciascuno a rispondere.
Nel film Perfect Sense, visto qualche sera fa su Amazon Prime (racconta di una pandemia globale in cui ad uno ad uno i 5 sensi scompaiono per sempre per gli esseri umani), la vista e il tatto sono gli ultimi a venire meno, forse per la loro importanza per l’uomo…….il professore de L’appello sostituisce la vista con il tatto: alla fine di ogni intervento dei suoi alunni, le sue mani toccano il volto dei ragazzi.
“Il tatto è più onesto della vista, perché è libero dai pregiudizi che abbiamo negli occhi. E’ un paradosso ma ciò che ci troviamo davanti agli occhi non lo vediamo, anche perché in genere non vogliamo vedere davvero, quanto piuttosto ottenere conferma di quello che già crediamo di sapere e rimanere ciechi su ciò che non ci conviene sapere.” “La vista è sopravvalutata: gli occhi finiscono per non vedere ciò che vedono sempre, più vedono e meno guardano”.
L’appello è un libro sulla scuola, ma io ci ho trovato dentro molto di più. Provo a raccontarvi perché.
“Ciascuno è maestro e discepolo al tempo stesso, come in ogni vera relazione. Serve sempre una domanda per vedere le cose, perché vediamo solo ciò su cui fissiamo l’attenzione e la fissiamo solo su ciò che amiamo, e così lo chiamiamo a presentarsi e a diventare presente.”
A prescindere dalla relazione professore-alunno, nelle relazioni più importanti che abbiamo riceviamo e diamo allo stesso modo in un rapporto alla pari…e questo è possibile se c’è una domanda aperta e se c’è attenzione e cura per chi abbiamo di fronte e non ci poniamo come i tenutari del sapere (qualunque esso sia).
Una domanda potente è il filo conduttore di metà del romanzo:
10 capitoli hanno come titolo un mese di scuola (da settembre a luglio) e come tema 10 domande aperte fatte dal professore ai suoi alunni:
Settembre – quale è il tuo nome e la tua storia?
Ottobre – quale è il tuo buco nero?
Novembre – quale è stato il tuo più importante momento di sincronia?
Dicembre – quale è un argomento che ti riguarda?
Gennaio – che cosa hai cercato in queste vacanze di Natale e cosa cercherai in questi ultimi mesi di scuola?
Febbraio – quale è il tuo desiderio, cosa vuoi creare nei prossimi 15 anni?
Marzo – cosa è l’appello per te?
Aprile – cosa contengono per te le 4 stanze del cuore (dolore, gioia, paura, desiderio)?
Maggio – come va con la tua luce, quale forma ha preso, dove è incastrata e dove sta brillando?
Giugno – come vorresti la scuola?
Luglio – chi sei, che cosa sei venuto a portarci che prima non c’era? O quale tipo di amore custodisce la tua persona?
Tanta roba …provate anche voi a rispondere a queste 10 domande?
La relazione alla pari fra maestro e discepolo è il filo conduttore dell’altra metà.
Nei 10 capitoli intitolati “Diario di un professore cieco”, il professore prende ad uno ad uno i suoi alunni e mette in connessione la loro storia (fatta di luci e di ombre) con la sua personale storia (fatta di luci e di ombre).
Provo a raccontarvi altre cose che ho imparato da L’ appello, attraverso la posta per me.
Di recente siamo riusciti a fotografare per la prima volta un buco nero, grazie ad un complicato sistema di radio-telescopi collegati tra loro a livello globale. (..) Quel cerchio oscuro è stato definito “orizzonte degli eventi” un luogo che non può essere descritto perché quando lo guardi diventi cieco anche se ci vedi benissimo perché là dentro la forza di gravità è talmente forte che inghiotte perfino la luce. Al centro della nostra galassia c’è uno di questi buchi neri. (..)
Anche al centro del nostro essere c’è un buio denso di gravità, attorno al quale la vita si accende …è bene averci a che fare con il nostro buco nero, perché da come lo affrontiamo dipende tutta la nostra esistenza, tutta la sua luce.
A me l’unica che mi da pace è Luce, l’educatrice, perché lei sa che quel vuoto c’è e non ci gira intorno come tutti gli altri, non cerca di riempirlo, ma di tirarci fuori qualcosa, un sorriso o un urlo. Tutti gli altri provano a gettarci dentro oggetti, mentre lei fa quello che non ti aspetti, ci butta dentro un secchio con una corda e aspetta che venga in superficie una sorpresa, una cosa bella, una cosa che non t’aspetti, una stella o solo una padella. E lei si stupisce di tutto quello che esce, semplicemente perché è mio.
Per me le cose e le persone non sono, accadono. Le cose e le persone si rivelano solo quando dai loro il tempo che ci vuole a spogliarsi senza provare vergogna. (…) Sprechiamo la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie a nasconderci, ma sotto sotto noi vogliamo venire alla luce (…) ciò per cui vogliamo essere amati, noi lo nascondiamo.
Taglia corto, come accade quando arriviamo alla soglia del dolore e, anche se vorremmo liberarcene raccontandolo, ne lasciamo intravedere solo uno scorcio attraverso i nostri gesti e il tono di voce, poi la vergogna ci blocca, come se il dolore fosse una colpa, e non vita che si è finalmente decisa a guarire.
Il dolore è un processo e se ne può raccontare solo la storia, è una storia che si deve ancora fare. Non riguarda il passato, uno stato appunto, che si può descrivere, ma il futuro. Per questo il dolore è fatto per essere raccontato, perché è una storia. Altrimenti ci pietrifica.
Credo che esistano due categorie di persone: quelle che fuggono da qualcosa e quelle che cercano qualcosa. O forse è più preciso dire che ci sono persone che smettono di fuggire da qualcosa e cominciano a cercare, e persone che non iniziano mai a cercare perché sono troppo impegnate a fuggire. Diventare adulti è smettere di fuggire, cominciare a cercare e poi restare, essere presenti a se stessi senza scappare di fronte alla realtà.
Amo il caos. (..) Ci ha liberati dall’ossessione del controllo e ci ha aperto gli occhi sulla realtà: niente determinismo, niente catene di cause ed effetti.
Il metodo scientifico ci offre istruzioni per la vita: prestare attenzione, stupirsi, raccontarla.
Noi vediamo veramente soltanto ciò a cui accordiamo la dovuta attenzione, è l’attenzione è la presenza nel presente, altrimenti il presente ci sfugge, di continuo. (..) Se invece prestiamo attenzione, tutta quella che possiamo, allora la vita si apre, come se rispondesse all’amore del nostro sguardo o del nostro ascolto o del nostro tocco: più sensi usiamo, meglio è.
E da questa vicinanza nasce sempre lo stupore, sia di fronte a qualcosa di bello e compiuto, sia di fronte a qualcosa di strano, di brutto, di ferito, di incompiuto. Dallo stupore nascono poi le domande per comprendere.
E quando si è compreso si può raccontare ciò che si è scoperto, perché anche altri sappiano, vedano, vivano.
I figli assomigliano alla relazione fra i due (genitori), cioè alla loro storia d’amore (…) La qualità della relazione tra i genitori è la vita interiore di un ragazzo. Non facciamo altro che proiettare sulla realtà l’amore o l’odio che i nostri genitori di sono scambiati, la speranza o il cinismo che il loro amore ha creato, i progetti, le promesse, le cadute e le macerie che la loro relazione ha prodotto negli anni.