Di questo libro scrivo non una vera e proprio recensione, ma dei semplici appunti di ciò che mi ha colpito.
Cosa mi è rimasto del libro:
-la lettura per trovare le parole per esprimere il dolore e dare senso alla propria esistenza
-l’ingiustizia di un padre che ti fa del male (“non vali niente”) e la grazia di altri padri incontrati sulla strada (“ricordati che tu vali”)
-le emozioni spesso contrastanti nei momenti di svolta della vita di Daniel (per es quando sta per compiere la prima rapina, e in molti altri momenti della sua storia)
-gli occhi di Daniel che si riempiono di lacrime
-gli occhi di Daniel si illuminano incontrando le persone che non lo giudicano e dimostrano fiducia in lui
-la descrizione dell’incontro con la comunità Kayros e con Don Burgio (in cui sono volontaria, preparo la cena una sera in settimana in casa arancione)
-il bullismo verso i più deboli come reazione alla vulnerabilità che non puoi/ non vuoi mostrare
-il desiderio fortissimo di essere rispettati e amati
-le fidanzate in parallelo (Marika e Dulina, Zahra e Elena) alla ricerca di un abbraccio che non finisse mai
Per chi è interessato a dare un volto all’autore (Andrea Franzoso) e al protagonista della biografia (Daniel Zaccaro), consiglio di vedere questa intervista doppia.
Ecco la posta per me.
LE PAROLE DEGLI ALTRI
L’unico sollievo arrivava dai libri. (…) In ogni libro ritrovava qualcosa di sé: magari nella descrizione di una scena simile a qualcosa che aveva vissuto o in un aspetto del carattere di un personaggio. Ancora una volta per dare un nome a ciò che sentiva dentro di sé aveva bisogno delle parole degli altri. E così leggeva per orientarsi, per trovare l’uscita dal labirinto in cui si sentiva imprigionato.
SENZA LE PAROLE, LA VIOLENZA
Il problema era che ogni tanto il suo discorso sembrava incepparsi: gli mancavano le parole. Daniel si rese conto che il suo linguaggio non riusciva a descrivere appieno ciò che sentiva. (…) Senza le parole, non soltanto non era in grado di esprimersi e di comunicare, ma non riusciva nemmeno a pensare. Il risultato? La realtà che lo circondava gli risultava incomprensibile. E lui ne soffriva, si arrabbiava.
Un giorno provò a chiedere consiglio a Serafina: “Le parole che non ho, come faccio ad impararle?”. “Devi leggere, Daniel” (…) “Senza le parole quello che rimane è la violenza”.
La violenza è un segno della povertà di pensiero: è l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. Quando non sapevo chiamare con il loro nome il dolore e la rabbia che provavo mi scatenavo, un po’ come una bestia …Oggi vorrei recuperare gli anni che ho perso, anche se so che è impossibile.