Il libro inizia da un funerale, quello del Coach Bill Campbell. Più di mille persone si radunano in una tiepida giornata dell’aprile 2016 per commemorare la sua morte. Fra questa folla, ci sono persone comuni e decine di leader del settore tech della Silicon Valley: Larry Page, Mark Zuckerberg, Sheryl Sandberg, Jeff Bezos e anche gli autori del libro Eric Schmidt e Jonathan Rosenberg: “Noi lo chiamavamo Coach, ma lo consideravamo anche un amico, ed era così anche per quasi tutti gli altri. In seguito, infatti, scoprimmo che molte delle persone presenti quel giorno consideravano Bill il loro migliore amico”.
La sua capacità di far crescere gli altri, la sua grande carica affettiva (la sua caratteristica più conosciuta e distintiva era l’abbraccio), il suo insegnare ai manager ad essere loro stessi coach delle proprie persone, l’attenzione alle dinamiche dell’individuo dentro i team e la sua volontà di rimanere invisibile ….Bill Campbell è stato sicuramente una persona dalle caratteristiche personali uniche.
Eric Schimidt, Jonathan Rosenberg e Alan Eagle – manager di Google che lo hanno visto in azione come coach – dopo la sua morte hanno voluto andare a scoprire qualcosa di più di lui e del suo metodo, facendo oltre ottanta interviste a persone che lo hanno conosciuto..Ne hanno tratto un “manuale” che sintetizza il suo approccio intorno a 4 parole chiave: #leadership #fiducia #squadra #amore.
Di seguito la Posta per me.
Non si può essere buoni manager senza essere buoni coach (…) Se siete manager, dirigenti o leader di un team, in qualunque settore o azienda, potete migliorare il vostro rendimento e aiutare il vostro team a fare altrettanto (e ad essere più felice) diventandone il coach.
I Coach si rimboccano le maniche e si sporcano le mani. Non si limitano a credere nel nostro potenziale, bensì scendono in campo per aiutarci a realizzarlo. Ci reggono uno specchio affinché possiamo vedere i nostri punti ciechi e ritengono che stia a noi impegnarci per risolvere le nostre debolezze.
La leadership non riguardava se stessi ma il servizio a qualcosa di più grande: l’azienda e il team. (..) In questa formula non c’era spazio per i saccenti e gli arroganti e per le persone non Coachable. Le persone che vogliono trarre il meglio da un rapporto di coaching devono essere Coachable (…) I tratti della Coachability che interessavano a Bill erano l’onestà e l’umiltà, la disponibilità a perseverare e lavorare sodo e una costante apertura ad imparare.
Perché Eric Schmidt aveva bisogno di supporto emotivo? In realtà sono spesso le persone ai vertici a sentirsi più sole. Il loro grande ego e la fiducia in se stesse le aiutano ad avere successo, ma possono essere accompagnate da insicurezze e incertezza. Spesso incontrano persone che vogliono fare amicizia con loro per scopi personali, non in modo disinteressato. Sono esseri umani e come tali hanno bisogno di riconoscimento e di sapere di essere apprezzati.
L’approccio largamente cognitivo al management che imperava in Google presenta un altro problema. Le persone dall’intelligenza analitica tendono a presumere che i dati e altre prove empiriche possano risolvere tutti i problemi (..) tendono a considerare svantaggiosa e irrazionale la tensione emotiva, intrinsecamente caotica, che è sempre presente nei team di esseri umani e a vederla come una seccatura che verrà sicuramente risolta in un processo decisionale basato sui dati. (..) E la gente fa del proprio meglio per evitare di parlare di queste situazioni perché sono complicate.
Quando ciò accade di parla di “elefante nella stanza” (..) E’ qui che entra in gioco il Coach, con il ruolo di “rilevatore di tensioni”.
In Google avviarono un importante studio, pubblicato col nome di Progetto Aristotele, per identificare le caratteristiche distintive dei loro team di maggior successo. I cinque fattori chiave sembravano presi direttamente dal manuale di Bill Campbell. I team eccellenti di Google avevano sicurezza psicologica (le persone sapevano di poter correre rischi e avere supporto del proprio manager). Avevano inoltre obiettivi chiari (chiarezza), ciascun ruolo nel team era importante (significato), i membri avevano fiducia nel fatto che la mission del team avrebbe fatto la differenza (impatto) e inoltre i membri del team “get things done on time” (affidabilità). Bill era un maestro nel creare tali condizioni: faceva di tutto per costruire sicurezza, chiarezza, significato, impatto e affidabilità in ogni team di cui era coach.
Gli altri con cui avevo avuto un colloquio avevano un approccio “a stampino” per la formazione delle persone, della serie “puoi scegliere qualunque colore purchè sia nero”. Bill invece era un arcobaleno in technicolor: lui apprezzava il fatto che ciascuno avesse una storia e un background differenti, e affrontava le sfide della crescita con molte sfumature differenti.
I team dalla performance elevata sono per natura formati da persone brillanti, aggressive, ambiziose, determinate, presuntuose e con un enorme ego. Essi possono essere rivali e competere per fare carriera, spesso mettono i propri dipartimenti o altri silos organizzativi uno contro l’altro in conflitto di status, per ottenere più risorse e gloria. E questo è un problema. (..) Nel meccanismo si crea un enorme tensione. Per bilanciare la tensione e far diventare il team una comunità serve un Coach, qualcuno che lavori non solo con le singole persone ma anche con l’intero team per attenuare la tensione costante, nutrire continuamente la comunità e assicurarsi che essa sia allineata su una visione e obiettivi comuni.
Al centro del successo di qualunque azienda ci sono le persone. Il compito principale di un manager è aiutare le persone a migliorare il proprio rendimento professionale e crescere. (..) attraverso:
* Supporto = offrire alle persone gli strumenti, le informazioni, la formazione e il coaching necessari per avere successo
* Rispetto = aiutare le persone a realizzare i propri obiettivi in modo coerente alle esigenze dell’azienda
* Fiducia = sapere che le persone vogliono lavorare bene e credere che lo faranno
“Probabilmente il valore più importante in un rapporto, sia esso di amicizia, sentimentale, familiare o professionale, è la fiducia. (…) La fiducia è un concetto con molte sfaccettature: cosa intendiamo con questa parola? Un articolo accademico la definisce come: “La disponibilità ad accettare la vulnerabilità sulla base di aspettative positive sul comportamento altrui” …significa sentirsi al sicuro pur nella propria vulnerabilità.”
Bill Campbell era un Coach di squadre: le costruiva, le modellava (..) Diceva spesso “Senza una squadra non si arriva da nessuna parte”. La cosa più importante che cercava e si aspettava dalle persone era una mentalità “la squadra prima di tutto”
Vincere non era tutto per Bill. Vincere nel modo giusto invece lo era. E per lui era vincere come squadra e vincere con etica.
Bill diceva che il suo compito era di vedere nell’azienda piccole crepe che possono essere riempite con un piccolo ritocco. “Io ascolto, osservo e colmo i gap di comunicazione e comprensione tra le persone.” Bill partecipava alle riunioni settimanali dello staff ascoltando attentamente, osservando il linguaggio del corpo dei presenti e percependo i cambiamenti di umore. (..) Bill aveva la capacità di percepire la frustrazione delle persone.
Riassumendo i principi di Bill per costruire i team, date a voi stessi il permesso di essere empatici (..) L’ approccio di Bill dava priorità a un contatto a livello umano, poi le questioni professionali venivano affrontate partendo da lì.
Una volta messo insieme il team, la cosa più importante è il legame tra le persone che ne fanno parte, che si forgia curandosi gli uni degli altri e del bene comune. L’ obiettivo era quello di generare ciò che i sociologi chiamano “capitale sociale”.
Gli studi accademici evidenziano l’esistenza di un “effetto di compensazione” tra l’affetto e la competenza: le persone tendono a presumere che chi è affettuoso è incompetente, e chi è freddo e competente. Bill invece era una grande combinazione di mente acuta e cuore grande.
Amore è una parola che non si sente molto nel settore degli affari. (..) Abbiamo ricevuto condizionamenti e insegnamenti che ci hanno portato a separare le nostre emozioni personali dall’ambiente professionale. (..) Viviamo quotidianamente un’esistenza in cui il nostro io umano e quello professionale sono praticamente due cose separate. Non era così per Bill. Lui non separava l’io umano da quello professionale; semplicemente trattava tutti come persone. Tutti gli aspetti, lavorativo, personale, familiare, emotivo, erano un tutt’uno. (..) Bill era un Coach di squadre un amante delle persone. Da lui abbiamo imparato che non puoi esistere senza l’altro.